
Riguardo le diverse declinazioni del termine menù, in gastronomia si distingue la sequenza delle vivande proposte in tavola dalla loro più o meno fedele rappresentazione su un cartoncino.
Ma i destinatari/protagonisti siamo comunque noi, e in una tavola imbandita ideale (in genere è 6 il numero per gustare con sapienza una grande bottiglia di vino) potremmo trovare insieme i principali rappresentanti della filiera gastronomica: un produttore (o due se mettiamo anche il vigneron), un commerciante, un analista della qualità, un gourmet meglio se non giornalista, un medico nutrizionista, un architetto e ovviamente lo chef, che si siederà a sua discrezione fra un piatto e l’altro.
Ognuno di noi avrà sul tavolo un menù, preferibilmente su di un portamenù d’argento o porcellana, che racconti con rigore e precisione, compendiando l’essenza con la ricchezza dell’informazione e in cui l’estetica dovrebbe riflettere, come il pranzo, la cultura dello chef.
Oggi il rapporto fra il ricordo e l’inatteso, ingrediente indispensabile per ogni piatto di qualità, dovrebbe pervadere anche tutto il menù (quello vero, quello che si mangia) in una sequenza dinamica, che diventerà un nuovo ricordo. Un ricordo che dipenderà ovviamente dal rapporto fra la realtà concettuale dello chef/anfitrione e la nostra soggettività, e in cui il menù (in questo caso inteso come ʻcartoncino colorato’) dovrebbe costituire una sorta di sintesi di queste diverse dimensioni.
E un vero menù lo chef lo firma e lo regala al commensale, perché nel ristorante è lo chef il punto di riferimento concettuale che comunica la propria cultura, nell’accoglienza, nella presenza discreta, nell’abbigliamento e infine nel menù che si conserverà per conservare un ricordo. Oggi in un periodo storico in cui la pari dignità vale per i prodotti, ma anche per le diverse tipologie di locali e ʻdi far cucina’, il menù può riprendere vigore nel suo significato più nobile dopo decenni di frammentazione concettuale e gastronomica.

Articolo di Maurizio Campiverdi
